I pugni in tasca
July 7, 2017<Acqua frizzante con lime e ghiaccio> le dissi. La
ragazza appoggiò il vassoio sul tavolino
scrisse qualcosa sul piccolo block notes, quindi,
infilandosi la penna fra i capelli, centrò
l’ingresso del bacaro alle mie spalle. Dietro a occhiali
scuri nascondevo occhi lucidi e neri
come bottoni, cercai di non pensare, ma appena li chiusi
una lama cominciò a tagliarmi in
due una guancia. Con il dorso della mano mi affrettai ad
arginare quella calda e amara
scia sperando che nessuno mi vedesse, quindi mi soffiai
il naso e sospirai come un
vecchio tormentato dai ricordi.
In quel periodo ero in bilico, tra pochi mesi tutto non
sarebbe stato più come prima e forse
già il presente non mi apparteneva. Quando la ragazza
tornò, mi accorsi che stavo
leggendo sempre la stessa riga da almeno tre canzoni.
Spensi la musica che avevo infilato
nelle orecchie da ore e strinsi il bicchiere tra le mani
cercando un po’ di refrigerio e dopo
una lunga sorsata con il polsino arrotolato della camicia
mi asciugai la fronte. L’isola della
Giudecca, che vedevo dal mio tavolino dalle Fondamenta
delle Zattere, era immobile e
assonnata come sempre. Sulla mia destra potevo scorgere
l’inconfondibile mole del
vecchio Molino Stucky, gioiello di architettura neogotica
che da quasi duecento anni si
affaccia sul Canale della Giudecca. Per un attimo pensai
a quel Giovanni Stucky che agli
inizi dell’ottocento, con la complicità dell’architetto
Ernest Wullekopf, fece edificare la
storica struttura sfamando per anni centinaia di persone
e di come un giorno del 1910 quel
suo sogno finì sotto i colpi a morte di un suo
dipendente. Chissà cosa direbbe oggi,
pensai, vedendo la sua nobile creazione trasformata in
una catena alberghiera della
famiglia Hilton. Rubai l’ora ad un turista che mi sedeva
accanto e frantumai a morsi un
pezzetto di ghiaccio. Quel pomeriggio di metà luglio
avrei voluto non finisse mai. Le case
dell’isola che davano sul canale erano ancora in ombra ma
di lì a poco il calore del sole
avrebbe infuocato anche quelle fresche finestre
spalancate a nord. Vedevo alcuni uomini
intenti a spiegare le tovaglie a quadri sui tavoli di
legno delle trattorie. Avevo visto quei
gesti ripetersi molte volte e da così lontano, anche se
non potevo scorgerne i dettagli,
assaporavo comunque la melanconica atmosfera di quel
rito. Abbassai gli occhiali fin
quasi sulla punta del naso, facendo diventare gli occhi
due minuscole fessure. Posai lo
sguardo verso est dove si poteva indovinare lo stabile
dell’Ostello di Venezia e ammirare
la bianchissima facciata della Chiesa del Redentore che, eretta
dal Palladio per volontà del Senato veneziano, intendeva invocare l’aiuto del
Divino dopo che dall’estate del 1575 la
peste aveva provocato in due anni la morte di quasi un
veneziano su tre.
Annusai dei gerani rossi che incorniciavano il territorio
dell’osteria e rimasi deluso nel
constatare che non profumavano. In quel periodo rientravo
nella categoria delle persone
socialmente inutili, non avevo un lavoro fisso, non versavo
contributi all’erario, in
compenso avrei potuto riempire bottiglie di lacrime. Ero
a Venezia da un mese per un
lavoro procuratomi da un’amica. Con un gruppo di giovani
laureandi, passavo giornate
intere tra le mura dell’Arsenale di Venezia. Mentre in
quelle giornate d’estate tutto
sembrava immobile, il mio martello scandiva il passare
delle ore attaccando migliaia di
foto, stampe, Polaroid secondo criteri stabiliti dal
curatore della mostra. Era un lavoro
semplice e giustamente mal pagato ma non era quello il
motivo che mi aveva spinto lì. La
sera seguente ci sarebbe stata l’inaugurazione del primo
workshop di un certo Araki
Nabuyoshi a Venezia, famoso quanto eccentrico fotografo
giapponese, e tutti a parte me
erano molto eccitati.
Mentre aspettavo Daniel, sempre in ritardo dal giorno che
lo avevo conosciuto, accesi
un’altra Benson & Hedges e ripresi a scrivere
appunti. Ad un tratto dal tavolino a fianco al
mio si alzò la voce timida di una donna intenta a
sventolarsi il viso con la carta dei vini:
<Senta, mi scusi, sarebbe così gentile da
spegnerla?> Mi girai di scatto strappando dalle
labbra la sigaretta per schiacciare nel posacenere almeno
dieci boccate di fumo sotto al
filtro ancora vergine. Ancora prima che il tabacco vivo
cedesse alla pressione delle mie
dita sul quel pezzo di vetro sponsorizzato le dissi un
po’ impacciato: <Mi scusi, nessun
problema>. Mentre cercavo di riprendermi
dall’imbarazzo notai che teneva una mano
appoggiata al ventre leggermente rigonfio sotto al
vestito a fiori. Era in compagnia di un
uomo sulla quarantina e in quel momento mi accorsi che da
quando si erano seduti
accanto a me non avevano aperto bocca.
Lei era di una bellezza disarmante: capelli lunghi e
mossi non solo dal vento, cadevano
morbidi su spalle nude e candide, credo avesse più o meno
la mia stessa età cioè quel
periodo della vita in cui non sai se definirti adulto o
meno, ma sei ancora in tempo per
cambiare le cose.
Daniel sbucò dall’angolo vicino all’osteria lasciandosi
alle spalle lo storico squero che
come sempre oltre a ripararle, sfornava ancora una
gondola nuova di zecca ogni dodici
mesi. <Allora, come andiamo?> <Scusa il
ritardo> aggiunse <c’è stato un problema con il
mixer > Aveva il respiro affannato e la fronte
imperlata di sudore, dal collo della t-shirt
pendevano due auricolari bianchi e sfoderava il sorriso
delle grandi occasioni. <Non
preoccuparti> risposi <Stavo per farti uno
squillo> <Pronto per la serata di domani?> mi
chiese mentre si sfilava lo zaino. Quel sabato, come
dicevo, ci sarebbe stato il gala’ per
l’inaugurazione della “personale” di quel fotografo e ad
essere sincero non avevo nessuna
voglia di andarci, ma dissi: <Certo! Forse distrarmi
un po’ mi farà bene> continuai <In
questi giorni non riesco a pensare ad altro e forse un
po’ di sana mondanità è quello che ci
vuole> Pescai un pezzo di lime dal fondo del bicchiere
e portandolo alla bocca il labbro
inferiore mi bruciò lievemente. Cercai d’istinto lo
sguardo della donna e non trovandolo
cominciai a fissare il posacenere. Quindi Daniel aggiunse:
<Non è una decisione facile, ne
abbiamo già parlato molte volte ma solo tu puoi
scegliere, o resti o te ne vai> Sfilò una
sigaretta dalla tasca dei jeans e mentre stava per
accenderla, attirai la sua attenzione
togliendomi gli occhiali assicurandomi che la coppia non
ci stesse guardando. Senza dire
una parola alzai le arcate sopraccigliari indicando
contemporaneamente l’uomo e la donna
seduti lì vicino, facendo oscillare velocemente la testa.
<Poi ti spiego> dissi anticipandolo
prima che aprisse bocca. Daniel la fece roteare fra le
dita, poi come se avesse appena
sparato con una rivoltella, la fece scivolare nuovamente
nella tasca dei jeans. <Lo so non
è facile e così non può continuare. Sono anni che aspetto
l’occasione per andarmene da
qui e adesso che quel momento sembra arrivato non so
decidermi> Lui mi guardava in
silenzio, aveva sentito quella storia decine di volte
durante il mese in cui lavoravamo
insieme e in realtà il suo silenzio decretava ancora una
volta che quella era una partita che
dovevo giocare solo con me stesso.
Mentre Daniel ordinava il suo chinotto, la coppia si
alzò. Tradito da un giro di vento
improvviso, il volto della donna scomparve dietro la
folta chioma. Si girò verso di me e con
un piccolo gesto della mano si ricompose i capelli. Prese
con cura il libro riverso sul tavolo
e mentre stava per infilarlo nella borsetta, un foglietto
sgusciò tra le pagine scivolando su
chissà quali parole e iniziò il suo volo. Come impazzito,
prese a infilarsi sotto ad un paio di
grosse gambe di una signora anziana e di almeno tre
tavoli, rischiando di cadere in acqua
prima di finire sotto le zampe di un Labrador. La durata
di quel volo fu il tempo che
impiegai a capire che quel foglietto altri non era
che uno degli inviti per l’inaugurazione
del giorno seguente.
L’uomo era già ad un paio di metri da lei e non si
accorse di nulla fino a quando la donna
non si chinò per raccogliere l’invito. Si girò verso di
me e con un timido gesto della mano
sembrò salutarmi, stavo per alzare la mia quando Giacomo
(o meglio “scarface” come tutti
in realtà lo chiamavamo) mi piantò una manata sulle
spalle sorprendendomi da dietro.
<Ciao Giacomo che ci fai qua, pensavo fossi ancora
all’Arsenale> dissi. Era un
personaggio eccentrico, sulla cinquantina, leggermente
brizzolato e nonostante la pelle
crivellata da un acne giovanile era un tipo affascinante,
ma soprattutto era il curatore della
mostra e quindi il nostro capo. <Che schianto! L’avete
vista è una delle più belle donne
che conosca> Mi rimisi gli occhiali cercando di velare
il mio interesse e gli chiesi: <Vuoi
dirmi che la conosci e chi è?> <Beh ehh…> disse
assaggiando una stanghetta degli
occhiali da sole <In realtà non è che la conosca bene,
è la compagna di un mio amico del
liceo e ci salutiamo, tutto qua> Non era me che
salutava prima! Schiusi le labbra
trasformandole in un sorriso impercettibile. Non volevo
sapere nient’altro, avevo tutto ciò
che mi bastava per sperare che domani arrivasse il più in
fretta possibile. Se aveva l’invito
sarebbe venuta all’inaugurazione, non era sposata, tanto meno
con quello che pensavo
fosse suo marito ed era bella, troppo bella per non
essere rivista.
Quella sera cenammo in casa. Daniel viveva in affitto in
una piccola mansarda e ogni sera
per andare a dormire dovevo aspettare che i suoi amici se
ne andassero prima di
trasformare un divano fatiscente in un divano-letto
fatiscente. A dire il vero (anche se non
gliel’ho mai detto) più che una mansarda, era una
soffitta. Per arrivare alla porta
d’ingresso ci si doveva arrampicare su vecchie e ripide
scale di legno sapendo che una
volta varcato l’ingresso, l’umidità ci avrebbe seguiti
anche in casa. Dal bagno, tra la
fessura che si apriva fra il muro e la grondaia si
riusciva ad intuire parte dell’insegna
luminosa dell’Olandese Volante in Campo San Leo. Ci
scolammo una bottiglia di vino
rosso sgretolando bibanesi finti e del pollo avanzato la
sera prima. Dalle casse sopra la
libreria usciva la voce di un giovane Capossela e sulle
note de “l’una e trentacinque circa”
decisi di lavarmi i denti. La sveglia che pendeva da una
delle travi vicino al boiler segnava
l’inizio di un nuovo giorno e con lo spazzolino ancora in
bocca, aprendo leggermente la
porta con un piede dissi: <Che ne dici se scendiamo a
farci una birra?> Potevo vedere
Daniel in cucina riflesso sulla finestra del corridoio
tormentarsi le unghie, fermarsi un
attimo e dire: <Direi che è un’ottima idea>.
Al Caffè Duchamp, in Campo S. Margherita, c’era il solito
groviglio di gente seduta in
cerchio attorno a decine di piccoli tavoli rotondi tanto
che visti dall’alto potevano sembrare
fiori sbilenchi. Al Caffè Rosso, dove qualcuno stava
suonando il piano accanto alla toilette,
c’erano gli amici Daniel. Mentre cercava una sedia per
unirsi a loro, mi avvicinai al
bancone e ordinai una caraffa di birra, pagai e mentre
cercavo di farmi largo tra la gente
accalcata all’uscita ne rovesciai un po’ sulla schiena di
un tipo. Il soggetto prese ad
imprecare senza sosta mentre continuavo a scusarmi
evitando di puntualizzare che se
non si fosse piazzato davanti alla porta magari non
sarebbe successo. Lo ignorai e
sfilando imbarazzato fra gli sguardi dei suoi amici
sgusciai fuori. Il gruppo di amici di
Daniel non mi piaceva, andavano contro ogni criterio di
socializzazione e per quanto
cercassi di rendermi simpatico ed interessante non
riuscivo a scambiare più di un paio di
battute senza riuscire a mettere in fila un vero
discorso. Nel Campo quella sera c’era
un’atmosfera bellissima. Le chiome degli alberi erano
appena mosse da un brezza che
sembrava pettinarli. Contai almeno venti mazzi di rose
rosse muoversi tra la gente dietro
ai denti bianchissimi di chi per vivere era costretto a
vendere gesti d’affetto. Ordinai una
granita all’anice e chiesi al cameriere di metterci anche
del Pernod.
Daniel sembrava ipnotizzato dalla ragazza che aveva di
fronte, mi assicurai di avere la
copia delle chiavi della soffitta in tasca e mi
allontanai. Gli inviai un sms trovando una
scusa qualsiasi quando ormai ero lontano, lui avrebbe
capito. Un campanile in lontananza
scandiva l’ora con due sordi rintocchi portati dal vento
che si schiantarono contro le pareti
delle case. Mi fermai prima in una piccola osteria,
quindi in tutti i posti che trovavo aperti e
che fossero disposti a soddisfare la mia sete di
evasione. La notte scivolò così tra parole
al vento e pensieri pesanti.
Mi svegliai quando ormai le ombre, stanche di nascondersi
dal sole, disegnavano le ultime
sagome sulle pareti delle case. Ruotai il polso e mi
accorsi di non avere più l’orologio.
Daniel non era in casa, sulla porta c’era un foglietto
giallo che diceva: “Sono al lavoro,
quando ti svegli (cosa molto difficile) chiamami, a dopo
ciao _”.
Dal frigo usciva un forte
odore di cipolla e, increspando la fronte espirando
lungamente, presi di scatto la bottiglia
di latte aperta richiudendo lo sportello in tutta fretta.
Frugai nella dispensa alla ricerca di un
Aulin grattandomi la schiena, appoggiai le labbra al
collo della bottiglia che tenevo in mano
e ingurgitai un paio di quelle pasticche lucide. Di colpo
mi venne in mente che fra poche
settimane la mia vita sarebbe cambiata forse per sempre e
provai una fitta allo stomaco.
Sentivo le budella contorcersi dentro di me e non era una
sensazione piacevole. Trovai i
jeans della sera prima perfettamente piegati e sistemati
accanto alla libreria. Frugai nelle
tasche per controllare ci fosse tutto. Chiavi di casa,
due accendini di qualcuno che
sicuramente mi ero intascato la sera prima, portafogli e
telefono, c’era tutto tranne
l’orologio ma feci comunque un lungo sospiro liberatorio.
Il cellulare di Daniel era spento,
la sveglia segnava le cinque del pomeriggio, pensai che
la serata cominciava alle otto e
che non ci rimaneva molto tempo per prepararci. Così
rimandai la doccia a più tardi e,
senza nemmeno lavarmi il viso, m’infilai i jeans e scesi
le scale a due a due con il cervello
che ad ogni scalino sembrava sbattere contro il cranio,
poi in un attimo ingrossai il
mucchio di gente per le calli. Faceva molto caldo e dopo
pochi metri avevo già il colletto
della camicia inzuppato, notai che molti turisti erano
vestiti in modo pesante nonostante il
caldo, mentre altri accartocciati per terra cercavano un
po’ di refrigerio sventolandosi il
viso con le cose più strane. Daniel suonava il basso in
un gruppo e passava le giornate
chiuso in un vecchio magazzino smesso a solleticare
quelle quattro corde. Quasi ogni sera
suonava in un locale diverso e per arrotondare tre
pomeriggi alla settimana lavorava in un
ristorante che per i veneziani degli anni ottanta era
stato una vera istituzione: il “Paradiso
perduto”. Il forte mal di testa mi stavo passando e
quando arrivai all’ingresso del locale era
solo un ricordo. Abbassai la grossa maniglia mentre un
cardine sbilenco della porta
annunciava il mio arrivo ai presenti. Entrai e dietro
all’enorme bancone di legno dove
campeggiava ironica la scritta “Divieto di ormeggio”
c’era il solito Maurizio. Erano da poco
passate le sei e il suo alito, intriso di vino e sardine,
già investiva ogni cosa nell’arco di un
paio di metri. Aveva una bianca barba incolta e folta
come i capelli, occhi scavati e un
fisico tarchiato che lo faceva ondeggiare pesantemente ad
ogni passo. Lo salutai come
fanno i militari portando la mano destra tesa alla
fronte, borbottò qualcosa e sparì nel
retro. Era un tipo curioso, c’erano molte ombre nel suo
passato che alimentavo le
leggende più strane. Impossibile dargli un’età precisa e
lui a chi glielo chiedeva rispondeva
semplicemente che l’età di una persona è solo un numero.
<Ei , com’è
che hai telefono spento?> Daniel era in cucina con le mani affondate in un
secchio enorme zeppo di seppie appena pescate, si girò di
scatto e disse: <Allora sei vivo,
pensavo non ti saresti più svegliato visto l’epilogo
della serata> poi riprese: <Ho perso il
telefono cazzo e con lui tutta la rubrica porca
puttana> <Beh, se ti può consolare io ho
perso l’orologio> replicai. <Tra due ore dovremo
essere all’Arsenale, hai sentito Scarface
per caso?> <Ti ho appena detto che ho perso il
telefono e mi chiedi se l’ho sentito?!?>
Tuffò di nuovo le mani in quella melma nera e uno schizzo
denso mi sfiorò una scarpa.
<Ci siamo svegliati male oggi, ehhh?> Dissi
sorridendo cercando di stemperare la
tensione <Piuttosto> chiesi dirigendomi verso il
bagno <Che ne dici se ti do una mano!?
Potrei preparare la pasta fresca come l’altra volta
mentre tu finisci con l’”inchiostro”…>
<Ok> disse mentre tirava un sospiro, <Allora
vado in bagno e torno> dissi portandomi le
mani alla cintura. Il locale era una distesa di tavoli
distanti tra loro pochi centimetri, circa
duecento gambe di legno poggiavano su di uno splendido
quanto sformato pavimento
veneziano. Si diceva che una volta tra un tavolo e
l’altro ci potesse passare un cane con
una scopa tra i denti, l’inflazione aveva accorciato le
distanze, pensai. Per arrivare al
bagno si doveva tagliare un piccolo cortile a cielo
aperto facendo attenzione a non
scivolare sulla superficie lucida e umida del pavimento.
Anche la porta del bagno era di
legno intriso dei peggiori olezzi e la fessura dal
pavimento doveva essere di almeno venti
centimetri. Mi ricordai di quella mattina che sorpresi
Patrick e Sonja scambiarsi effusioni
pensando di essere soli dentro a quel metro quadro
indifferenti agli odori di ogni genere
che scaturivano da quell’ anfratto. La luce della piccola
finestra in alto proiettava il groviglio
di ombre sul pavimento lucido e lasciava poco spazio
all’immaginazione. Patrick era un
fotografo francese sulla cinquantina, si era trasferito
in Italia dopo la rottura con la
compagna e dormiva e lavorava nel suo claustrofobico
“Atelier de foto” a due passi dal
locale, dove trascorreva la maggior parte del tempo. Era
diventato alcolista dopo che il
figlio reduce da tre anni di carcere, aveva trovato la
morte in un incidente stradale
tornando dal matrimonio di un amico. Sonja, invece, di
origini croate, faceva la
parrucchiera anche se la sua vera passione era la poesia,
in quei quarantacinque anni si
celavano sofferenze indicibili e una lista infinita di
incontri sbagliati. Da qualche anno
aveva ripreso a bucarsi e molto spesso portava sul viso i
segni di qualche notte in
compagnia dell’ennesimo uomo sbagliato. Due puntine
colorate arpionavano alla parete
un foglio di carta sbiadito dal fumo, era una delle sue
poesie, mi appoggiai ad un tavolo e
presi a leggere:
PASSI DI UN ADDIO
L’ombra della sera annegò ogni cosa
slegando emozioni e pensieri profondi,
lei se ne stava sdraiata e confusa
mentre l’uomo distratto le sfiorava i
contorni
I pensieri allagavano le menti di noia
e scanditi dal nero morire di onde
soffocavano sguardi privi di gioia
creando voragini interne profonde
Un disarmante silenzio incombeva nell’aria
creando una culla d’imperante disagio
solo la voce del mare rimbalzava precaria
albergando rumori di uno strano presagio
Gli occhi erano come il riflesso di un prato
e mentre alcune parole spiccavano il volo
di quello che tra i due c’era stato
rimase soltanto un rumore di passi sul molo.
Niente è per sempre. 15 Ottobre 1990
Sonja.
<Allora cos’hai deciso di fare, mi aiuti oppure
no?!> Era Daniel che con il grembiule lercio
d’inchiostro se ne stava ritto sulla porta della cucina.
<Hai ragione scusami, arrivo>.
Diciotto uova, quindici chili di farina 00, acqua, sale.
Sistemai gli ingredienti sul tavolo
vicino all’impastatrice e cominciai a riempire la bocca
di quello strano arnese con della
farina, ci piantai dentro due uova intere che per un
attimo mi parvero due enormi occhi
gialli che mi fissavano. Avevo fatto quel lavoro molte
altre volte e mi divertivo molto. Ci si
impiegava un po’ di tempo, ma la soddisfazione che si
provava a veder spuntare i primi
lacci di pasta fresca mi bastava.
Maurizio uscì dalla cucina con un pezzo di sigaro spento
in bocca. Si poteva indovinare da
che lato era solito tenerlo in bocca dal colore giallo
dei baffi che coprivano anche gran
parte delle labbra.
Nel locale a quell’ora c’erano solo un paio di clienti.
Uno appoggiato al bancone con lo
sguardo perso dentro a del succo d’uva, l’altro seduto e
basta vicino alla vetrata che dava
sul canale, uno sui settanta, l’altro sui trenta, uno
stempiato con la pelle abbronzata dal
tempo, l’altro con stoppie di capelli fino alle spalle e
dalla cute bianca come cotone. Solo
una cosa li rendeva simili, trasudavano entrambi
solitudine.
Dopo circa mezz’ora avevo riempito sei piatti enormi di
pasta super fresca che avrei
mangiato anche cruda tanto sembrava appetitosa. Stavo per
riempire per l’ultima volta
l’impastatrice quando Maurizio trascinando pesantemente
una delle sedie si avvicinò
appoggiandoci la schiena e l’immenso corpo. Per un
secondo rimasi a fissarlo mentre
tormentava il suo mozzicone di sigaro spento, lui non
disse una parola né tanto meno mi
guardò. Stavo per dire qualcosa ma fui interrotto
dall’arrivo di uno dei camerieri che
lavoravano in quel posto. Era un tipo smilzo di quelli
che vedi prendere a pugni i punch
ball dei luna park d’estate, camicia bianca, gilet nero
di pelle, jeans nero e scarpe nere.
Leggermente stempiato ma con lunghi capelli lisci fino
alle spalle che scoprivano una
fronte bianca e spessa come un panetto di burro. Salutò
con un ciao collettivo facendo il
gesto con la mano e mi sembrò di vedere un orologio
identico al mio su quel piccolo polso.
S’infilò nel retro senza aggiungere una parola. Guardai
il mio di polso sinistro; al posto
dell’orologio sembravo avere un bracciale di carne bianca
per via dell’abbronzatura e
pensai che fra poche ore avrei rivisto la donna del
giorno prima. Evidentemente Maurizio
osservando le mie guance tirarsi leggermente indietro
disse: <Perché sorridi?> La
domanda mi colse di sorpresa e sulle prime non risposi.
Daniel sbucò d’improvviso
dicendo che tra un po’ sarebbe stato il caso di levare le
ancore e sparì di nuovo in cucina
senza aspettare nessuna risposta. Non ci conoscevamo
molto bene ma c’era rispetto tra
me e Maurizio. Avevamo parlato poche volte assieme, per
lo più in quelle sere dove dopo
l’orario di chiusura si abbassano le serrande e ci si
gode l’ultima fetta della nottata
toccando qualsiasi discorso e comunque sia sempre troppo
ubriachi per connettere e
ricordarsi gli argomenti il giorno dopo. <Ti voglio
raccontare una cosa> disse a un certo
punto fissando il pavimento. <So quello che stai
provando in questi giorni e so che non è
facile> Daniel, pensai, quello scemo andava in giro a
raccontare a tutti un sacco di cose,
non riusciva mai a tenere la bocca chiusa, non che ci
fosse nulla da tener nascosto per
carità, ma erano pur sempre affari miei.
<Anni fa quand’ero un po’ più giovane di te adesso
odiavo questa città, odiavo gli abitanti,
odiavo l’odore e detestavo perfino il volo dei
gabbiani> Si versò mezzo bicchiere di vino
dalla brocca che teneva in mano e riprese <Mi sentivo
in gabbia, chiuso dentro a una
prigione senza via d’uscita con una voce che mi diceva di
andarmene da quel posto>.
Tolsi il guscio dalle ultime tre uova rimaste e lo
guardai mentre riprendeva fiato, non
sapevo perché volesse parlarmi di quelle cose, ma
ascoltarlo mi piaceva, versai dell’acqua
e un pizzico di sale e lui riprese: <Così un giorno me
ne andai pensando fosse per
sempre. Era una mattina di gennaio, sarei dovuto partire
in autunno ma non volevo dare
un ulteriore dispiacere a mia madre molto anziana, così
passai il Natale a leggerle i
racconti del suo autore preferito> Bevve un altro
sorso e riprese <Quella mattina, dicevo,
sulla soglia di casa non mi girai nemmeno a guardarla per
l’ultima volta e ancora oggi
sento i suoi occhi piantati come giavellotti dietro la
mia schiena mentre mi allontano col
mio carico di bagagli e di amarezza>. <Sono stato
in molti posti, Alan, dopo quasi un anno
a Roma ho attraversato l’Europa da est a ovest, mi sono
perduto per il Messico e Sud
America, ho visitato l’Oriente e ho cercato di fermare il
tempo tra i colori e gli odori
dell’India > <Ho fatto ogni tipo di lavoro,
viaggiato con qualsiasi mezzo e in qualsiasi modo
e situazione e incontrato un fiume di gente, ma credimi,
non ho mai trovato la felicità che
pensavo di trovare> <Poi un giorno un amico mi
raggiunse a Goa facendomi avere un libro
ed una lettera scritta da mia madre pochi mesi prima di
morire. Era una lettera dalla
calligrafia incerta, zeppa di errori ma traboccante di
quell’amore che solo una madre può
avere per un figlio. Nella lettera mi parlava della sua
infanzia, di dov’era cresciuta, di come
fossero cambiate le cose in tutti quegli anni descrivendo
situazioni che a voce forse non
aveva mai trovato il coraggio di raccontare. Mi disse che
pochi mesi dopo la mia partenza
nella vecchia casa in campagna dov’era cresciuta, aveva
trovato per la prima volta nella
sua vita un piccolo quadrifoglio e che subito aveva
pensato a me. Mi scrisse che quando si
trova un quadrifoglio bisogna regalarlo subito a qualcuno
a cui si vuole bene, così lo
stesso giorno prese quel libro e con estrema cura ce lo
infilò dentro.> Ci fu un momento di
silenzio, poi mentre accompagnavo quei morbidi capelli di
pasta sull’ultimo piatto gli chiesi
<Che libro era?> Mi guardò con gli occhi lucidi e
mi disse: <Non c’era nemmeno una
parola in quel libro, Alan, solo pagine bianche e nude
come la mia esistenza in quel
momento. Sulla copertina il titolo diceva: “Se cerchi una
risposta, la troverai in queste
pagine”. Fece fare un volo di tre metri al pezzo di
sigaro che finì nel camino acceso e
aggiunse: <La settimana successiva io e il mio amico
eravamo su un volo per Venezia,
non avevo ancora un pelo bianco e da quel giorno non mi
sono mai più mosso da questo
posto> Rimasi con la bocca socchiusa ad ascoltare
questo vecchio barbuto ubriaco che
senza nemmeno riprendere fiato aggiunse: <E’ inutile
scappare dall’inquietudine del
vivere, ti seguirebbe ovunque tu vada. Quando i nostri
piedi per la prima volta toccano il
suolo dove siamo nati, un cordone ombelicale invisibile
ti unisce per sempre a quella terra.
Se non si può vincere l’inquietudine dell’essere, bisogna
almeno provare a conviverci e
scappare troppo spesso non è la soluzione> Continuai a
rimanere in silenzio, non avevo
aperto bocca per tutto il tempo e uno strano formicolio
mi stava scendendo dal collo fino
alle gambe. Cominciarono ad arrivare i primi clienti,
Maurizio si alzò a fatica e dondolando
li accolse col suo solito modo di fare.
Uscimmo dal locale quando fuori era già buio, una densa e
appiccicosa nebbiolina si
attaccava alle guance penetrando in mezzo alle ossa,
eravamo in ritardo pazzesco. Cercai
di pescare in fondo alla solita tasca dei jeans il
cellulare ma non lo trovai, stavo per
tornare indietro ma vedevo Daniel davanti a me che mi
diceva di correre che non c’era
tempo. Gli dissi di aspettare un attimo, tornai nel
locale e trovai la donna che avevo visto
alle zattere seduta ad un tavolo con l’uomo del giorno
prima. Rallentai il passo e le sfiorai
quasi i capelli con il dorso della mano, trattenendo il
respiro incamerando quel suo
profumo sperando impregnasse i miei polmoni, quindi
cercai il telefono. Centrai la cucina e
chiesi al tipo smilzo se per caso avesse visto un
telefono da qualche parte e questo senza
girarsi mi rispose di no senza aggiungere altro. Con la
coda dell’occhio intanto vidi la
creatura attraversare il cortile per dirigersi verso il
bagno, dimenticai il telefono e mi
precipitai in bagno. Bastò uno sguardo per capire che i
nostri corpi si sarebbero uniti.
Chiudemmo la porta di legno alle nostre spalle anche se
sapevo che se qualcuno fosse
entrato, la fessura avrebbe lasciato poco spazio
all’immaginazione. Ci baciammo come
adolescenti in preda ad una tempesta ormonale, lei, come
il giorno prima, teneva sempre
la stessa mano sul ventre, mi slacciai la cintura e
alzandole un poco il vestito la presi
fissando il poster incollato sulla porta. Non dicemmo una
sola parola. Vista da vicino
sembrava molto diversa dal giorno prima, i capelli erano
lisci, la pelle abbronzata e il suo
alito pesava più dell’aria. Comunque l’avrei rivista più
tardi all’inaugurazione e dopo un
lungo bacio, inforcai la porta d’uscita senza più pensare
al telefono. Al posto dell’uomo che
le sedeva di fronte adesso c’era una signora anziana, ma
non ci pensai poi molto. Daniel
non mi aveva aspettato e presi a correre. La foschia era
sparita e un fiume di gente
sembrava venirmi incontro mentre sembravo solo in quella
folle corsa .Affrontai due,
cinque, dieci ponti e mentre stavo per scendere una delle
rampe, inciampai su di un
gradino rotto cadendo rovinosamente a terra.
Quando aprii gli occhi ero sempre nella soffitta di
Daniel, a torso nudo sdraiato sul divano
ma con ancora i jeans infilati sopra ad un solo calzino.
Ero fradicio di sudore e avevo un
fortissimo mal testa, la bocca era impastata e non
riuscivo a tenere gli occhi aperti perché
una luce fortissima entrava dalla finestra.
Dalla cucina arrivava la voce del mio amico: <Caffè
doppio o pasta lunga cacio e pepe?>
Mi ci volle un po’ per connettere, poi sentii sempre la
voce di Daniel che diceva: <Sbrigati,
la fai tu la doccia per primo o a faccio io? Siamo leggermente
in ritardo> Soggiunse in
modo ironico. Guardai d’istinto l’orologio abbracciare il
mio polso sinistro e vidi che erano
da poco passate cinque. Mi sedetti sul bordo del letto e
chiesi: <Scusa ma in ritardo per
cosa?> Non passarono cinque secondi che lo vidi
comparire sullo specchio della porta del
soggiorno e chiedermi <Sei sicuro di stare bene? Tra
tre ore c’è l’inaugurazione e fra
meno di un’ora dobbiamo essere all’Arsenale, ricordi?>
<Va bene che stamattina sei
rientrato rovesciando tutto quello che ti capitava a tiro
e sono riuscito a fatica a metterti a
letto…, ma si può sapere poi dove sei stato?!?> <In
giro> risposi distratto senza pensare
con lo sguardo perso nel vuoto. Avevo dormito tutto il
tempo, non c’era stato nessun
pomeriggio al “Paradiso perduto” e nessuna avventura
consumata nei bagni di quel locale.
Tirai indietro le guance e notai un piccolo libro sul
letto che probabilmente era caduto dalla
libreria sopra il divano. La copertina diceva: “Tutto
quello che gli uomini hanno capito delle
donne” lo aprii e dentro c’erano solo pagine bianche.
Sfogliai il libro una diecina di volte
cercando qualcosa ma non c’era nulla. Mi trascinai in
cucina e chiesi a Daniel se per caso
fosse stato da Maurizio quel pomeriggio. Strinse la moka
del caffè e accese il gas, poi mi
chiese per la seconda volta se ero sicuro di sentirmi
bene. <Perché continui a chiedermi
se mi sento bene scusa?> Dissi cercando gli occhiali
da sole <Ma ti sei rincitrullito?! Di
sabato non lavoro mai al Paradiso !!!>.
Sembrava tutto così vero quello che avevo sognato,
pensai, che ancora mi sembrava
impossibile fosse solo il frutto della mia fantasia.
Decisi di farmi una doccia, sperando in quel modo di
lavare anche i sogni che avevo fatto.
Non riuscivo a togliermi dalla testa le parole di
Maurizio e anche quando l’inaugurazione fu
solo un ricordo lontane quelle frasi continuarono ad
echeggiarmi dentro come grida in un
canyon.
L’evento fu un successo, Araki Nabuyoshi partì il giorno
seguente giusto il tempo di
leggere sui giornali una favorevole e calorosa critica da
parte dei giornalisti intervenuti la
sera prima. Quella sera cercai con gli occhi la donna per
tutto il tempo in mezzo ad un
mare di gente. Chiesi perfino a scarface se l’avesse
vista, ma niente. Non la rividi mai più,
mi rimasero soltanto pochi ricordi sbiaditi e dopo
qualche mese sparirono anche quelli.
La domenica seguente verso l’ora di chiusura andai nel
locale di Maurizio, quando entrai
stava asciugando delle posate seduto ad un tavolo. Ci
salutammo senza entusiasmo,
ordinai un caffè e cercai la poesia di Sonja affissa al
muro. Quando la trovai, la mia
attenzione fu catturata da un piccolo foglio di carta che
si perdeva tra la confusione di
pagine sul quel muro. Su c’era scritto: “E’ inutile
scappare dall’inquietudine del vivere, ti
seguirebbe ovunque tu vada. F.V.” Trasalii in silenzio,
cercai di deglutire ma le ghiandole
sotto alla mia lingua sembravano in vacanza. Strappai
quel foglietto di carta e parandomi
di fronte gli chiesi sventolando il foglio: < Sei
stato tu a scrivere questo?> <Leggimi cosa
c’è scritto non ho gli occhiali> replicò. Lessi d’un
fiato la frase e attesi. <No> rispose <Ma
so chi è stato> E’ una storia lunga e non ho certo
voglia di star qui ad annoiarti, ma ieri
pomeriggio è passato a trovarmi un mio vecchio amico che
non vedevo da anni e che
quando non stavo più in Italia si prese cura di mia
madre. Se non fosse per lui che quasi
trent’ anni fa venne a Goa a cercarmi non so dove sarei
in questo momento. Era stata mia
madre a chiedergli di farlo, doveva trovarmi e lui lo ha
fece. Abbiamo parlato un po’ e
bevuto molto poi a notte fonda prima di andarsene ha
scritto quella frase> Si fermò un
attimo con un cucchiaio in mano a guardarmi. <Ma
perché lo vuoi sapere?> Avrei voluto
trovare la forza per parlare, per raccontargli tutto ma
mi uscì solamente un <Grazie>. Lo
salutai e mi accomiatai ancora con quella frase che
continuava a ripetersi dentro me. In
quella calda notte d’estate avrei trovato la risposta ai
miei dubbi. Camminai per ore
andando in quegli angoli di Venezia dove raramente si
avventurano i turisti. Mi fermai per
alcuni minuti sotto ad un balcone ad assaporare la
melodia inconfondibile e malinconica
della tromba di un Miles Davis in “Round Midnight”.
M’infilai per calli sconosciute per ore
senza una meta precisa come se stessi cercando luoghi e
situazioni che non avevo
ancora visto e vissuto. Dal vecchio quartiere ebraico,
nella zona di Cannaregio, posai lo
sguardo verso est dove vidi il chiarore dell’alba
annunciare un nuovo giorno. “E’ inutile
scappare dall’inquietudine del vivere, ti seguirebbe
ovunque tu vada”. Continuavo a
pensare a quella frase. Puntai il naso all’insù e decisi
di giocarmi il futuro a testa o croce.
Da ragazzino facevo sempre questo gioco prima di un
compito in classe; se per esempio
facevo canestro con una pallina di carta in un cestino a
sei metri di distanza, il compito
sarebbe andato bene, era molto semplice e altrettanto
stupido. Così quella sera, seduto
sul bordo della vecchia fondamenta, decisi di chiudere
gli occhi e di aspettare che il primo
aereo squarciasse quella fetta di cielo cobalto sopra
l’aeroporto. Una volta aperti se
l’aereo fosse stato nella fase di atterraggio sarei
rimasto, viceversa sarei partito. D’un
tratto mi ricordai un aforisma del grande Francois
Voltaire che diceva: “Il vero viaggio di
scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma
nell’avere nuovi occhi”. Chiusi i miei
con la testa tra le mani, inspirai lentamente e aspettai
in silenzio. Quando il frastuono di un
jet sopra la mia testa si fece sempre più vicino e forte,
aprii gli occhi, mi alzai e senza
guardare la direzione in cui andava, pugni in tasca
puntai dritto verso casa.
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