Gli invisibili di NY
July 7, 2017Ethan ha licenziato la droga
per assumere la guida di una vita da senzatetto.
Quando lo vedo tra la Crosby
e Spring st. a SoHo è impegnato a calamitare l’attenzione dei passanti con la
sua voce squillante. Incrocio il suo sguardo dalla finestra dello Starbucks
dove sono entrato per sfuggire al caldo umido che in estate soffoca New York e lui,
con gli occhi di chi ha visto il mondo dalla prospettiva di un cane, mi sorride
mettendo in mostra l’unico dente che gli arpiona il labbro.
Esco con un ice-coffe nuovo
di zecca deciso a comprarmi la sua fiducia, lui gentilmente declina ma ormai il
ghiaccio è rotto e cominciamo a parlare. Mi dice di lavorare da anni per la United Homeless Organization, indicando
la sigla che campeggia enorme sul contenitore di plastica azzurro che usa per
raccogliere le offerte, così, mentre faccio scivolare una banconota da un
dollaro dentro al contenitore, gli chiedo di spiegarmi come funziona.
Ethan mi fissa con i
suoi occhi verdissimi e dopo avermi chiesto una sigaretta, comincia il suo lungo
monologo. La danza di cifre e di racconti è tale che solo dopo essermi
congedato da lui e aver preso tempestivamente appunti scrivendo su pezzi di
carta volanti, potrò alla fine ricordarmi tutto o quasi.
La United Homeless Organization ha sede nel Bronx e ha aperto i
battenti nel 1986 su iniziativa degli stessi homeless che vivevano in quegli
anni nella zona della Grand Central Station. Sono decine di migliaia i
senzatetto nell’area di New York, una cifra impressionante se si considera che donne
e bambini sono più del 50%. Scopo di questa associazione è quello di dare loro informazioni
in merito ai bisogni primari come il cibo, l’alloggio, l’assistenza sanitaria e
le informazioni su come trovare un impiego. Ogni notte c’è anche un servizio
bus che gira per la città portando loro qualcosa da mangiare e beni di prima
necessità.
Si ferma per un attimo,
il tempo di centrare un tombino con il mozzicone, poi riprende con maggiore enfasi.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 la UHO in collaborazione
con la YMCA è riuscita a sistemare in strutture di emergenza più di 10.000
senzatetto e in vent’anni di attività ha assistito oltre 500.000 homeless. Nei
primi anni ‘90 in moltissime stazioni della metropolitana di New York (MTA)
veniva distribuito cibo gratis a queste persone e David Dinkins, primo
afro-americano nella storia americana a diventare sindaco della città dal 1990
al 1993, dovette riconoscere che la UHO sosteneva più casi umani rispetto a
quelli seguiti dalle istituzioni ufficiali preposte dallo Stato. Con Rudolph Giuliani,
succedutogli e in carica fino al 2001, le cose sono cambiate radicalmente e, mi
dice cambiando espressione, la sua politica di tolleranza zero ha avuto
inevitabili ripercussioni anche sui senzatetto. Dinkins, ma soprattutto
Giuliani, hanno da un lato ufficiosamente ridotto del 30% gli homeless nell’area
di Manhattan, dall’altro ufficialmente coordinato una sorta si transumanza
umana dall’ Est Village, da SoHo, dal Lower est side, verso il Bronx, Dumbo ed infine a Williamsburg a Brooklyn. Conseguenza peraltro
“naturale” visto che gli affitti dei locali in quelle zone, ora glamour e alla
moda, stanno da anni lievitando alle stelle. Una soluzione, aggiunge, potrebbe
essere nelle unità abitative vuote e negli edifici inutilizzati che supera il
numero delle famiglie senza tetto che si trovano nei centri di accoglienza e
per strada.
Purtroppo non è non
sarà così: l’ultra pubblicizzato progetto del sindaco Michael Bloomberg “New
Housing Marketplace” creerà decine di migliaia di “case a basso costo”, ma
questi alloggi non saranno accessibili ai newyorkesi poveri, figuriamoci a
quelli invisibili!
A questo punto gli
chiedo di raccontarmi la sua di storia e dopo aver bevuto un sorso d’acqua salutando
un paio di amici, mi appoggia una mano sulla spalla dicendomi che dopo il
college, per anni ha prestato servizio come chef in un albergo di una grande
catena, poi quasi trentenne il buio della schizofrenia lo ha rinchiuso per due lunghi
anni in un ospedale psichiatrico spingendolo a tentare il suicidio conficcandosi
un coltello in un polso. Mentre mi parla ostenta per un attimo l’enorme
cicatrice che fa subito sparire sotto la manica. Uscito dalla clinica, non
trovando lavoro, per alcuni mesi ha venduto anche il suo sangue a dei
laboratori privati per 80 dollari al mese, poi la droga ed infine la strada,
unica compagna che, come mi dice tirando un poco indietro le guance, ti osserva
ma non ti giudica. Quasi mai si è homeless per scelta, continua, molti lo
diventano dopo un tracollo finanziario, una malattia, troppi sono i reduci di
guerre finalizzate all’assurda utopia di esportare la democrazia, conseguenza
di un paradosso assurdo visto che gli Stati Uniti d’America sono di fatto un
paese ultra razzista dove i diritti umani sono commisurati in base all’apporto
economico che il singolo versa al Paese.
Le associazioni come la
UHO esistono semplicemente perché quelle istituzionali non funzionano. Ad
esempio per fare richiesta di assistenza come ex-tossico, vedi Ethan appunto,
seguendo le procedure standard affidandoti ad enti ufficialmente preposti la
cosa è semplice, in teoria. Si tratta di compilare, dopo lunghissime ore di
attesa, dei moduli traboccanti di centinaia di domande per poi dover tornare dopo
settimane seguendo altre infinite trafile. In pratica succede che quasi il 90%
delle persone non ritorna presso gli uffici preposti, i moduli già compilati invece
imboccano la lunga strada della burocrazia facendo comunque incassare i
proventi destinati al sociale agli enti statali senza dare nulla in cambio.
“A New York ogni giorno
è una scommessa per un homeless”, mi dice con un filo di ironia, “ma in India
oppure a Città del Messico la situazione è di gran lunga peggiore come del
resto in moltissime altre parti del mondo”. Alla fine prima di abbracciarmi, mi
fissa un secondo, poi dalle sue labbra cade come una cascata questa frase: “Può
succedere a tutti e in qualsiasi momento di perdersi e perdere tutto”, mi dice
facendo partire un piccolo sputo che atterra sulla mia maglia, “ma nessuno ci
pensa fino a quando un giorno si sveglia accorgendosi di essere diventato
invisibile”.